Il sabato di papà

Quando arrivava il sabato, papà si incupiva. Continuava ad andare in ditta e l’unico svago che si concedeva era comprare i dolcini e prendere un caffè a Biella, nello storico bar dove trovava qualche vecchio amico. Lo osservavo di nascosto quando, credendo di non esser visto, abbandonava il volto lasciando che i segni della sofferenza venissero a galla come relitti. Appena udiva i miei passi, si ricomponeva e sfoggiava il sorriso, come una ferita di sole tra i marosi. Allora mi avvicinavo a lui e lo abbracciavo, così, senza dire nulla. Parlavano gli occhi. “La mia cara, cara…”. Solo queste parole. Sapevo che il fine settimana, papà soffriva quasi sempre di mal di testa. La domenica mattina si concedeva un riposo lungo e alle dieci preparava il the per tutti noi. Nonna era già migrata dall’altra figlia: accadeva ogni dì di festa. E io mi chiedevo perché mai papà la domenica avesse sempre quell’emicrania. Dentro di me lo intuivo. Ora non è più un’intuizione. Tutti attendono trepidanti il weekend, ma è proprio in quel tempo di sospensione che la mancanza di chi è svanito oltre le nuvole si fa feroce. E allora, un’onda di nostalgia avvolge le pieghe interiori e si resta ad aspettare il lunedì, quando le incombenze quotidiane tornano a confondere le ombre. Come i lampioni di città fendono il buio, senza riuscire a dissiparlo.
Anna Raviglione

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